Aprile : il vessillo blu della golosità
In questa stagione occhieggiano, qua e là, negli incolti e negli uliveti, i fiori blu-viola del muscari comosum. A me piace la grazia scompigliata e tanto il colore di questa piccola bulbosa, detta in Salento lampascione o meglio pampasciune. Fiorisce ovunque, in primavera, intorno al Mediterraneo e in Italia lo si trova dal mare alla prima montagna. Ma, mentre altrove ci si limita, al massimo, ad unirlo ad un mazzolino di fiori di campo, qui lo si guarda con tutt’altro intento. E con l’acquolina in bocca. I salentini sono appassionati e competenti raccoglitori di erbe di campo. È una cultura antica e ancora viva che ha moltissimi praticanti.
Adesso, finita la ricerca invernale delle cicorine e superata quella della paparina ormai in fiore (vedi l’articolo sui papaveri), diventate legnose le tenere punte degli asparagi selvatici, ci si butta alla ricerca dei “pampasciuni”. Lavoro difficile e da esperti, non tanto per l’individuazione della pianta che il bel fiore blu denuncia, quanto per l’estrazione del bulbo che vi sta sotto: profondo nel terreno, ben ancorato alla terra rossa è difficile da estrarre senza sciuparlo. Dopo le pioggerelle di primavera, quando il terreno è umido (se non ci si lascia tentare e distrarre dalla raccolta delle lumache), bisogna munirsi di zappetta, calibrare il colpo, stimare la profondità, sollevare la zolla, seguire lo stelo come un filo di Arianna per giungere infine ad estrarre il bulbo vischioso che aderisce saldamente alla terra. Se c’è, perché se si è sbagliata la profondità o la direzione tocca segnarsi mentalmente il posto ed aspettare la stagione seguente. Poi si passa al successivo vessillo blu che indica il collegamento tra il fiore che sta nell’aria e il bulbo che sta nel buio della terra.
Il lavoro non termina qui, anzi comincia. I bulbi, ripuliti grossolanamente dalla terra, vanno poi delicatamente puliti e liberati, manualmente, uno ad uno, dalle tuniche esterne per giungere al piccolo cuore rosa. A quel punto i bulbi vanno messi in acqua, risciacquati svariate volte e lasciati in ammollo per perdere parte della componente amara. Solo allora si decide come cucinarli: cotti sotto la cenere, bolliti, incisi e fritti o messi sott’olio. Io uso quest’ultima soluzione: è un modo per conservarli ed offrirne, in estate, ai miei ospiti, come curiosità gastronomica. Hanno un gusto particolare, un po’ selvatico, non adatto a tutti i palati cittadini.
Sono senz’altro, come diceva Galeno nel I sec.d.C., diuretici, lassativi e depurativi. Unanimemente, nell’antichità classica, venivano considerati afrodisiaci e come tali presenti sulle tavole nuziali. Ovidio, Marziale, Plinio ne decantano le virtù in questo campo.
Io ne offro con parsimonia ai miei ospiti perché, pur non osando contraddire Ovidio, maestro insuperabile nell’Ars Amatoria, ne constato un altro effetto, decisamente imbarazzante in certe circostanze: scatenano, se mangiati in quantità, un subbuglio intestinale ed un vivace meteorismo.
Ecco la ricetta dei miei lampascioni sott’olio:
Bollire i lampascioni, fino a che risultino teneri, in acqua e sale. Buttare via l’acqua e farli bollire di nuovo in acqua e aceto (metà e metà) con sale, timo, alloro, rosmarino e aglio. Scolarli e lasciarli asciugare una notte ben distesi su un canovaccio. Metterli in vasetti ben pressati e ricoprirli di olio extravergine di oliva. Lasciarli riposare una notte. Rabboccare se necessario e chiudere i vasetti. Conservare in luogo buio e fresco.
Altri muscari sono presenti in questo territorio come il piccolo e bellissimo muscari armeniacum, ma essi non eccitano la golosità dei salentini e vengono quindi guardati con superficiale e fuggevole interesse.