E’ qui il Risorto!
La cultura salentina trova, nella ritualizzazione del sacro, una delle sue espressioni privilegiate. Attinge, con entusiasmo, sia alla tradizione orientale che occidentale purchè essa si esprima in forme ricche, opulente e di grande suggestione.
Dopo la corale partecipazione ai presepi viventi ( vedi, se vuoi, articolo relativo), le fòcare devozionali che scaldano l’inverno, la Caremma (articolo), i riti quaresimali, la “lunga” settimana santa (articolo) , i “sepolcri” splendidamente addobbati si giunge alla Pasqua.
Allora, nelle chiese, troneggia il Risorto. Altrove solo il più sobrio e canonicamente prescritto cero pasquale si innalza per esprimere la luce della Resurrezione.
Qui, in posizione evidente si pone una statua ( in genere di cartapesta) raffigurante appunto il Risorto. E’ rappresentato come un giovane ben proporzionato ed in genere slanciato, vestito di un drappo che gli cinge solo i fianchi o copre anche una spalla spesso di colore rosso ( a simboleggiare il martirio) o porpora ( ad indicare la regalità e il sacerdozio). Ha il braccio destro alzato con la mano in posizione benedicente. Il braccio sinistro regge un’asta a cui è appeso un vessillo rosso con croce dorata ( o bianco con croce rossa) . E’ un labaro, insegna militare di forma quadrata, qui usata per indicare la vittoria sulla morte, appeso all’asta con un bilico che gli permette di sventolare. E’ posto su una nuvola increspata, solitamente di colore argenteo. Alle spalle ha una raggiera dorata che allude ancora alla luce della Resurrezione.
Nella notte di Pasqua , al culmine della celebrazione, quando finalmente si sciolgono le campane, e i fedeli innalzano il loro canto al suono dell’organo avviene il disvelamento e, con un magistrale ” coup de théatre”, vien fatto cadere il telo che lo nascondeva alla vista. Resterà esposto alla devozione popolare fino a Pentecoste.
Questa forma di religiosità si nutre di tangibili manifestazioni del sacro. E’ il sentire, in tutte le sue accezioni che colma l’animo dei fedeli. Sentire proprio come cogliere con i sensi: la tangibilità della statua, lo splendore della raggiera, il rosso del drappo, il fruscio , ad ogni alito di vento, del labaro, il profumo dei gigli e delle rose che aleggia intorno. Sentire come sentimento: identificazione e partecipazione empatica allo straordinario mistero di una morte da cui si ritorna. Sentire come sensibilità nel cogliere il corale consenso della comunità ai riti che esaltano la speranza e l’identità collettiva.
Lo stupore con cui guardo queste manifestazioni di religiosità popolare deriva dalla mia non dimistichezza con questa ricchezza di simboli e di riti, provenendo da una regione: la Liguria, in cui le influenze gianseniste hanno lasciato ben più scarne e penitenziali tradizioni.
Ho provato a capire se in questo, come in altri riti, ci fosse una traccia della dominazione spagnola. Ho chiesto alla mia figlioccia, che vive a Ibiza, di andare in una chiesa, nel periodo pasquale e verificare se anche lì ci fosse il Risorto. Lo ha trovato e me ne ha inviato una foto!
Anche in Sicilia, forse per le stesse influenze, esiste la tradizione.
Imperdibile, a questo proposito, il quarto racconto di Andrea Camilleri in ” GOCCE DI SICILIA” piccola biblioteca Oscar Mondadori 2009. L’autore ci dice ” non essere cosa di fantasia. Capitò veramente al mio paese. Io ho solo cangiato i nomi.” La vicenda si svolge nel 1947, nell’imminenza delle prime elezioni regionali siciliane. Il problema è proprio il risorto e il suo disvelamento. Le ottiche da cui il “busillisi” viene affrontato dai vari personaggi sono contrapposte. Ecco alcuni accenni alle varie posizioni:
-prima impostazione: ” Allora ragionamoci sopra tanticchia. Domani, venerdì, il Signuruzzu more. Giusto?” “Giusto” fecero gli altri a coro. ” E che succede dintra la chiesa quando il Signuruzzu more? Succede che parano a lutto coi linzòli viola gli altari e legano le campane. Giusto?” “Giusto.” “Domenica invece il Signuruzzu risuscita e si canta la Missa. ma come risuscita? Cadono i linzòla a lutto e si vede la statua del Signuruzzu che se ne acchiana in cielo mentre le campane sonano a tinchitè. Giusto?” ” Giusto. ” ” E che tiene in mano il Signuruzzu che se ne acchiana in cielo? Una bandiera rossa, tiene!” ” Minchia!” variò il coro. Era indiscutibilmente vero. ” Veramente, bandiera bandiera non è” azzardò il giovane intellettuale, ” è piuttosto un làbaro.” ” Sempre rosso è.”
-altro ragionamento da altra sponda: ” E cu minchia può essere?” si spiò patre Aurelio … “Embè?” … ” Come embè?” scattò il medico. ” Non lo capisce, o forse non lo vuole capire, che se i paisani vedono a Cristo con la bannèra rossa si mettono in fila alla gabbina elettorale per votare il Fronte? E noi ce l’andiamo a pigliare nel culo! Si rende conto o no?”
e così via …
Ma il resto , spassoso e tragico nella sua delirante consequenzialità, ve lo dovete andare a leggere nelle Gocce di Sicilia di Camilleri!